Palestina, il viaggio di Francesca all’insegna dei diritti umani
La studentessa di 21 anni originaria di Supino (Fr) e il suo obiettivo, portare alla luce le ingiustizie del mondo. Ad aiutarla nel suo intento Assopace, organizzazione per la tutela della pace attiva sul territorio della provincia di Frosinone.
«Lo scopo principale era quello di conoscere la realtà dei territori palestinesi occupati». Queste le parole di Francesca Dolce. La giovane ha intrapreso con l’associazione un viaggio in Palestina durante la prima settimana di gennaio. La meta è stata scelta per tentare di comprendere la difficile realtà di un territorio logorato dalla guerra che dura da ormai più di settant’anni. Numerose le iniziative simili grazie alle quali si può ottenere una visione a tutto tondo della situazione. Il fine è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione palestinese. E Francesca è qui per raccontarci di più sulla sua esperienza.
Francesca, come e quando è nata l’idea di partire?
L’idea è nata quando ho iniziato a lavorare per Assopace, un’organizzazione per la tutela dei diritti umani. Io mi occupo soprattutto di tradurre gli articoli di giornali internazionali che parlano della questione palestinese, per poi riportarli sul sito dell’associazione. Ho inoltre partecipato a diversi eventi grazie ai quali ho capito quanto fosse importante vedere con i miei occhi cosa succede in questo paese. Ho colto l’occasione e sono partita con l’ultimo viaggio che hanno organizzato.
Non eri sola quindi?
Assolutamente no, sono partita insieme ad altre circa settanta persone provenienti da tutta Italia.
Appena atterrati vi è stato fatto un controllo particolare?
Nulla in particolare in realtà, c’è stata solo una rapida visione dei passaporti. Ci avevano però avvisato della possibilità di un controllo approfondito. D’altronde siamo atterrati all’aeroporto di Tel Aviv, territorio di Israele, dove le associazioni per i diritti umani non sono viste molto di buon occhio.
Quali sono stati i principali luoghi che hai visitato?
Ci sono stati momenti più “turistici” in cui abbiamo visitato città come Gerusalemme e Nazaret. Lo scopo principale però era quello di conoscere la realtà dei territori palestinesi occupati. Ossia di quelle città sotto il controllo di Israele. Quindi conoscere gli abitanti e le organizzazioni per la tutela dei diritti umani che operano in loco. In particolare siamo stati a Hebron, Ramallah e nel villaggio At-Tuwani.
Che aria si respira? Gli abitanti sono stati ospitali?
Essendo ospiti delle associazioni locali abbiamo potuto organizzare momenti collettivi in cui la tensione veniva meno, si stava insieme e si chiacchierava. Gli abitanti erano contenti che fossimo un gruppo così numeroso. Ritengono infatti che sia davvero importante che le persone siano consapevoli di cosa succede. Ma in altre occasioni si percepiva tutto il malessere e il disagio derivanti dalla situazione. Ad esempio il giorno in cui avremmo dovuto visitare Gerusalemme ci hanno avvisati che la guida del posto era stata arrestata perché si era espressa contro i soldati israeliani. Questo fatto mi ha davvero sconvolta ma lì è quasi la normalità, molte persone vengono arrestate per nulla e poi spesso rilasciate. Ad Hebron ho conosciuto anche un’altra guida che ha scelto la strada della resistenza non violenta, accompagnando gruppi come noi e spiegando quello che effettivamente succede, che a causa di questo entra ed esce dal carcere di continuo.
Proprio all’inizio hai detto che eravate ospiti delle associazioni locali, ce ne sono molte attive sul territorio?
Sì e la maggior parte di queste sostiene la resistenza non violenta. Quindi è importante evitare l’uso delle armi e cercare di intervenire con altri mezzi. La nostra associazione ad esempio incentiva gli studi universitari dei ragazzi palestinesi. In particolare gli studi di medicina, giurisprudenza e scienze politiche, tutte facoltà che permettono di lavorare per la tutela del popolo palestinese senza ricorrere a metodi aggressivi. Molte organizzazioni si occupano anche dei diritti delle donne, infatti oltre alla guerra sul territorio persiste la condizione schiacciante del patriarcato, quindi la maggior parte delle donne è sottomessa al padre o al marito.
C’è stato qualche evento o fatto che ti ha colpita in maniera particolare?
Di sicuro la giornata passata ad Hebron. Prima di andarci ricordo di aver tradotto alcuni articoli che la definivano una “città fantasma” e in effetti è proprio così. Si tratta dell’unica città palestinese, oltre Gerusalemme, in cui l’esercito si trova all’interno e non fuori le mura. Questa situazione ha portato molti palestinesi ad andare via essendo impossibilitati a vivere e svolgere persino le attività quotidiane. È stato impressionante vedere i pochi negozianti che c’erano implorarci di comprare qualcosa, oppure i bimbi che, quasi in modo aggressivo, litigavano per uno spicciolo appena raccolto da terra.
Torneresti in Palestina?
Assolutamente sì, spero di tornare a breve per collaborare con alcune associazioni. Anche se può sembrare una cosa lontana da noi battersi per questa causa è molto importante. Il popolo palestinese vive sotto occupazione da più di settant’anni e ancora oggi non se ne parla abbastanza.
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